Strano mito, quello della solitudine
Pubblicato il 2015-05-23 17:14:37 da Cinzia Funicelli
Un gruppo di ragazzini alla stazione. Sono appena usciti da scuola. Uno di loro chiede agli altri dove andranno ora, sembra preoccupato, poi esclama: “Dopo alla fermata dell’autobus sarò solo, e non ho neanche le cuffiette!”.
Sembrerebbe un’affermazione banale, eppure vi si cela un mondo. Cosa implica “non avere le cuffiette”? Qual è il rischio di rimanere soli alla fermata di un autobus? Si è mai soli?
È ormai osservazione comune che nel tempo del progresso tecnologico si faccia di tutto per non rimanere soli e disimpegnati, da qui il tentativo di ognuno di noi di riempirsi in vario modo. Le cuffiette, la connessione sul cellulare, il tablet per continuare a lavorare anche sui mezzi pubblici, i social network, Whatsapp, i giochi dello smartphone.
Se fino a qualche decennio fa, chiudendo la porta di casa e uscendo si ritagliava in un certo senso la propria libertà, e si definiva il proprio spazio, il proprio confine, ora l’irreperibilità sembra impossibile e anche indesiderabile.
Con il passare degli anni, da un semplice telefono “portatile” si è passati ai vari pacchetti promozionali con sms e telefonate gratuiti, per ottenere poi la possibilità di portarsi dietro Internet grazie allo smartphone, senza più il limite del computer, e giungere infine ai servizi di messaggistica istantanea, come Whatsapp, che permettono una comunicazione senza limiti di costi e di tempi. Quindi, un collegamento incondizionato, infinito, eterno. Un collegamento… con chi? Sembrerebbe con un tutto non ben definito, l’importante è che non ci faccia sentir soli.
La direzione che ha preso il progresso, e in particolare la tecnologia, sembrerebbe essere proprio questa: il “non limite”, una comunicazione senza confini. Un continuo abbraccio fusionale materno, gratificante ma risucchiante. Così sembra trovare risposta il bisogno primitivo dell’essere umano di avere tutto il possibile qui e ora, senza un rifiuto, un ostacolo, una scelta, una rinuncia, un differimento, una sensazione di vuoto. Come si traduce tutto ciò rispetto alla capacità di tollerare la solitudine?
Strano mito, quello della solitudine. Proprio nell’era in cui si è meno capaci di rimanere con se stessi, vengono continuamente diffusi slogan sul valore della solitudine e questa dimensione è altamente idealizzata. Non si esce mai di casa senza lo smartphone, si prova una strana forma di ansia se chi visualizza un messaggio non risponde, però si dichiara a gran voce, magari proprio su un social network, quanto si è in grado di vivere soli.
In realtà, non siamo mai realmente soli, ci lasciamo riempire da qualsiasi attenzione provenga da un esterno effettivo o virtuale. Non siamo mai soli, ma siamo isolati. Sembra un paradosso, ma a ben guardare non lo è. Viviamo in uno stato di isolamento relazionale, perché pur di non sentirci soli investiamo su relazioni virtuali intercambiabili e molto spesso lasciamo perdere possibili situazioni reali. Non sperimentiamo a pieno né la relazione, né la solitudine, quella sana e creativa.
Senza chiaramente demonizzare l’uso di Internet e dei cellulari, l’osservazione di quanto siano mutate le relazioni sociali con il progresso tecnologico è un punto di partenza che permette di considerare bisogni e fragilità dell’uomo moderno. La tecnologia, infatti, non ha fatto altro che far uscire allo scoperto, per poi mettervi un tappo, le grandi paure che da sempre accompagnano l’esistenza umana, rese ancora più grandi dalla precarietà e dalla flessibilità che oggi sembrano caratterizzare l’incontro con l’altro.
La difficoltà di costruire una relazione affettiva di qualsiasi tipo, con i limiti, le separazioni e i conflitti che la contraddistinguono, porta a preferire il “contatto” virtuale (il like, il post, la visualizzazione, la condivisione, la chat), sempre disponibile, controllabile e idealizzabile in quanto mai realmente presente, e da cui dipendere senza il rischio di essere abbandonati o di dover fronteggiare un’altra individualità reale. Da qui, il mito della solitudine, tanto idealizzato quanto più si sente di non riuscire a tollerarla, e il correlato mito dell’autosufficienza, tanto portato all’estremo quanto più si è arenati in uno stato di isolamento. Da qui, ancora, la tendenza a declinare gli inviti a cene o aperitivi, e la parallela idealizzazione di persone mai conosciute nella vita reale, considerate amiche migliori di quelle reali.
Tutto ciò stravolge le relazioni sociali, gli incontri sentimentali, la concezione dell’amicizia. E allontana dalla possibilità di attraversare e coltivare dentro di sé quella dimensione, la solitudine tanto malintesa, che consente di entrare in contatto emotivo (non virtuale) con altre persone, tollerando il dato incontrovertibile che siamo tante individualità separate che solo in quanto tali possono incontrarsi e riconoscersi.
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